Che noia il corporate storytelling

I miei colleghi che si occupano di Relazioni Pubbliche (insieme abbiamo fatto bei lavori), hanno scoperto da qualche anno il corporate storytelling. Sarei ingiusto se dicessi che per loro è una semplice evoluzione degli house organ e delle newsletter. Ma di fatto ha le stesse funzioni. Serve a migliorare la reputazione, a rafforzare i legami con i cosiddetti stakeholder, a consolidare la comunicazione interna. 

Come si raggiungerebbero questi obiettivi? Spingendo l'azienda, intesa come organizzazione di persone, a parlare di sé. A raccontarsi. Ecco allora, ad esempio, le community dei dipendenti che raccontano la loro vita in azienda, parlano di diete o viaggi, propongono idee e progetti; il profilo Facebook dedicato all'anima ecologista dell'azienda e agli eventi collegati; il blog in cui l'amministratore delegato si fa conoscere non come imprenditore, ma per le attività filantropiche o per le imprese del suo team di vela. 

Cos'è la storia in tutti questi casi? Diario, cronaca, resoconto. Io invece sono per la fiction, per la storia immaginata a partire dalle potenzialità di un prodotto o di una marca. Penso non solo che sia più divertente, ma anche più efficace proprio per migliorare reputazione, creare fidelizzazione, rafforzare lo spirito aziendale. 

Facciamo un esempio facile facile. La Apple è costituzionalmente refrattaria al corporate storytelling. Per un'organizzazione che vive di segreti inviolabili e di un'assoluta chiusura all'esterno, parlare di sé sarebbe come votarsi all'autodistruzione. Ve la immaginate, poi, la community dei lavoratori della Foxconn?

Eppure non ci sono storie più vivide di quelle raccontate dai suoi prodotti. Storie capaci di generare appartenenza, fedeltà, reputazione praticamente infinite. Prendiamo anche l'ultima campagna Iphone. Un magnifico esempio di pura fiction: la storia di uno smartphone costruito guardando com'è fatta la mano, o di un auricolare progettato osservando l'orecchio. Tutto il mito Apple si fonda su queste piccole storie che, nella loro semplicità, aprono orizzonti di senso. 

Non solo. Tutta la storia Apple, con i suoi alti e bassi, con il periodo d'oro cominciato con il ritorno di Jobs, può essere vista come una fiction per la tv. Ogni lancio di un nuovo prodotto è costruito come un episodio seriale. Da una parte la forte personificazione del prodotto: un oggetto magico che rivoluziona il modo di vedere e di fare le cose. Dall'altra un crescente coinvolgimento emotivo, che ha nella presentazione il colpo di scena finale. Lo stesso Steve Jobs non esiste al di fuori di questa fiction. E' il suo protagonista principale. La sua storia personale (ad esempio i primi anni nel garage con Wozniak) è stata rilanciata solo a partire dai primi anni 2000, con la nuova fase Apple, quasi come un prequel che mostrava come tutto è cominciato. 

Chiudo con una nota che faccio a scanso di equivoci. Non dico che il corporate storytelling non possa dare risultati significativi. Tutt'altro. Ma credo che debba far parte di una strategia narrativa più generale, in cui il prodotto e la marca siano studiati per creare un nuovo immaginario.


P.S. Nei miei testi le parole straniere, a partire da quelle inglesi, sono trattate rigorosamente secondo le regole della lingua italiana, che vuole invariati  i termini importati da altre lingue anche quando sono al plurale. Perciò avete trovato scritto stakeholder e non stakeholders (come ormai si usa fare, credendo così di far vedere che si conosce l'inglese. In realtà si mostra soltanto di non sapere l'italiano). 

Uno storyteller di nome Tacito

Si è chiuso ieri l'Internet Festival di Pisa. Il programma era declinato in tre aree tematiche: makers, tellers, citizens. La sezione tellers ha esplorato la rete come spazio per l'espressione politica alternativa ai mezzi mainstream. Come luogo che dà voce a realtà che altrimenti rischierebbero di rimanere emarginate e sconosciute. I tellers, in questo senso, si contrappongono o, comunque, si differenziano dagli storytellers. Come la realtà dalla fiction. Come l'informazione dalla comunicazione d'impresa. Rispetto ai contenuti, al che cosa viene raccontato, è probabilmente vero. Rispetto alla funzione-racconto non sono però così diversi. Penso anzi che avrebbero da guadagnarci se mescolassero le loro rispettive specificità. Se in qualche modo unissero le potenzialità dell'informazione e del "reportage" a quella della comunicazione immaginativa e simbolica. Se si descrivessero i fatti (ma anche prodotti o marche) creando momenti narrativi forti, crescita di tensione e partecipazione. Non c'è niente di nuovo. Tacito, tanto per fare un nome antico e contemporaneo allo stesso tempo, conosceva benissimo questa tecnica. Il suo esempio continua ancora adesso a produrre effetti, anche se in contesti diversissimi. Solo due giorni fa, ad uno sciopero, alcuni studenti innalzavano un cartello che riportava le famosissime e splendide parole che Tacito mette in bocca a Calgaco, capo dei ribelli scozzesi, quando davanti al suo popolo sconfitto riassume così le politiche imperiali romane: "Dove hanno fatto il deserto, lo chiamano pace". 

Vecchi miti, nuovi eroi

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad alcuni tentativi di far rivivere il mito dei vecchi Caroselli. Mi vengono in mente Ringo per Montana e Carmencita per Lavazza. Da poco è tornato anche Calimero, con la nuova campagna e il riposizionamento di Ava (www.avaforzanaturale.it). Tuttavia i "returns" non sono tutti uguali. Alcuni, come il Ringo di Montana, sono destinati a durare poco o avere scarso successo. Altri, come Calimero, possono invece avere qualche chance. Vediamo perché. 

1. Ringo e Carmencita: non basta avere una lunga storia per creare una buona storia.
Che audience e quale immaginario vanno a colpire questi revival? Alla fine solo quelli dei cinquantenni che dovrebbero recuperare la fedeltà alla marca attraverso un coinvolgimento emotivo per personaggi e storie che hanno popolato la loro infanzia. Senonché questa operazione non funziona. Storie e miti muovono all'azione se producono significati reali, vivi e presenti. Qui al massimo producono nostalgia per un tempo lontano. Passato. Che non torna più. Un sentimento negativo, dunque, che non può certo spingere al desiderio di un prodotto o alla passione per un brand. 

2. Il nuovo Calimero ripulito da stereotipi controproducenti
Il nuovo Calimero ha poco a che vedere con quello dell'Olandesina degli anni '60. Il vecchio Calimero incarnava di fatto la sindrome di persecuzione (nessuno mi vuole, nessuno mi ama, ecc.), riassunta nel celebre lamento finale "è un'ingiustizia, però". Una figura stereotipata dai tratti molto ambigui e controversi. Poteva essere amata o odiata. Generare simpatia o repulsione. Non va poi dimenticato lo stereotipo razzista del pulcino che da nero diventa bianco. Più che la favola del brutto anatroccolo, faceva venire in mente una brutta storia da Ku Klux Klan.

Il nuovo Calimero è il campione vitalissimo dell'ambiente e dell'ecologia che mette tutti d'accordo ed è legato al riposizionamento AVA nel campo della sostenibilità. E, inoltre, rimane sempre nero.




Infine va ricordato che il ritorno di Calimero in pubblicità è stato lanciato dal suo ritorno qualche anno fa come personaggio di storie e libri per bambini. Non è perciò un'operazione improvvisata come Ringo e Carmencita. Non è la riproposizione di un mito sbiadito dal tempo che parla solo all'audience ristretta di chi vedeva Carosello. Ma la metamorfosi di un eroe che, ritornando, cerca di coinvolgere più generazioni in una stessa storia. Quella di un mondo da salvare e di un futuro sostenibile per tutti.