Eppure anche Fiorello è un mito

Partita la nuova campagna Wind con la coppia di  fatto Fiorello-Baldini. Una formula collaudata e probabilmente efficace, in linea con un target di riferimento ampio e un immaginario, per così dire, molto pop.

Si tratta di un tipo di pubblicità che apparentemente non sembra avere quelle funzioni o elementi che aiutano a costruire un mito. 

Ma, a ben guardare, non è del tutto così. 

1. Fiorello-Baldini  fanno rivivere il varietà, un mito che è nella storia e nel costume degli Italiani (allo stesso modo lo facevano Bonolis e De Laurentis per Lavazza, ora sostituiti da Brignano). Si avverte la presenza, senza vederle, di ribalte, passerelle, ballerine. E' una storia radicata, con una precisa aura mitica. Come ho già detto in altre parti, il  concetto di mito va inteso in senso ampio. E' la funzione-racconto che rimanda a un'origine, a un evento che continua a tramandare significati, collegando il passato al presente.

2. Dal punto di vista formale, l'elemento che sostiene la struttura mitica degli spot è la serialità. Senza serialità non c'è mito. Possono cambiare le battute e le azioni, ma ci si attende sempre e solo quel tipo di battute e quel tipo di azioni che appartengono alla natura stereotipata di due personaggi (il protagonista e la spalla). Gli stereotipi definiscono l'ordine e le regole attraverso cui un racconto regge la prova del tempo, assicurando la sua continuità. 

Il fascino virale del testimonial

Comprato e letto "Storie virali" di Joseph Sasson, un agile manuale sulle tecniche di narrazione di marca, con particolare attenzione all'incrocio tra storytelling e viralità. Utile e interessante il quadro riepilogativo sulle funzioni o regole narrative per costruire una buona storia, una storia cioè in grado di diventare virale. A quelle elencate da Sasson vorrei aggiungerne un'altra, secondo me importante: la funzione - testimonial.

Posso intuire alcune delle ragioni per cui questa figura chiave della comunicazione di marca e di prodotto, tipica della pubblicità "mad men", non sia stata presa in considerazione.

1. Il testimonial è dalla parte della marca, è un suo sostenitore. Con la sua apparente neutralità o innocenza, si muove in una zona di confine tra pubblicità e propaganda.
2. E' una figura calata dall'alto, imposta, e perciò poco web e social.
3. Spesso usa un linguaggio tecnico o comunque didascalico e la sua funzione dimostrativa impedisce lo sviluppo di una storia coinvolgente, con un intreccio capace di generare significati o emozioni.
4. Per tutte queste ragioni, il testimonial ha una natura scarsamente virale.

Vorrei portare un esempio, invece, di come il testimonial possa rappresentare un archetipo narrativo ideale anche per il web. 




In questo video uno scooterista mostra orgogliosamente come ha trasformato la sua moto montando cilindri e pistoni di marca Athena. Una trasformazione che ha migliorato le prestazioni del proprio amato scooter. Il video si chiama "L'evoluzione". Bel titolo, no?, per una storia.
Vediamo punto per punto che cosa la rende molto significativa per la comunicazione di marca e le potenzialità virali.

1. E' una testimonianza che nasce spontaneamente dal web. Non è calata dall'alto, non è uno spot prodotto da Athena, ma è il racconto di un appassionato scooterista. La sua storia di trasformazione, perciò, si presta a essere diffusa con il passa parola tra gli altri scooteristi, interessati come lui a migliorare le performance del proprio scooter.

2. E' una testimonianza credibile. Al testimonial non interessa parlare di Athena, ma della propria abilità e del proprio scooter. E' evidente però che la sua scelta precisa di utilizzare i prodotti Athena ha una ricaduta positiva di reputazione e di notorietà per la marca.

3. Il testimonial è attendibile e convincente. E' un esperto, che parla ad altri esperti. Fa parte di una comunità che si riconosce e si identifica in lui. 

4. Senza volerlo, il video usa una molla potente per spingere alla valorizzazione del marchio Athena. E' il comportamento imitativo, tanto più forte se fa riferimento a una comunità. E' quel comportamento che dice: "Se l'ha fattto lui, posso farlo anch'io". O anche: "Se ha usato il gruppo termico Athena, anch'io lo voglio usare".

Queste considerazioni aiutano a comprendere perché la figura del testimonial possa vivere con successo anche nell'ecosistema web, come una sua creatura e non come un'intrusione fastidiosa e sospetta che viene calata dall'alto e dall'esterno.

Ma dal nostro video possiamo ricavare altre suggestioni importanti e cioè che la funzione-testimonial ha anche una ricca potenzialità narrativa e virale, secondo gli schemi proposti da Sasson.

1. Il video è costruito secondo l'intreccio narrativo del prima e del dopo, tipico delle trasformazioni. Ha uno sviluppo, una consequenzialità e un lieto fine.

2. E' presente l'Aiutante Magico (secondo il modello della morfologia delle fiabe che anche Sassoon riprende): il gruppo termico Athena. Il pistone e il cilindro Atnea consentono di trasformare lo scooter, di passare a una situazione nuova e più gratificante.

3. C'è un Oggetto di Valore in cui si identificano le aspettative di tutta l'audience potenziale: lo scooter, inteso come stile di vita, come realizzazione di sé.

4. Una considerazione, infine, sulla viralità di questo video. E' evidente che il successo della sua diffusione non va misurato solo sulla base del numero di views, ma soprattutto della loro qualità. Sassoon sembra non tenere sufficientemente conto di questo aspetto secondo me fondamentale. Nel suo libro, l'indicatore di viralità prevalente rimane la quantità di views. Certo, il numero è importante, ma non sempre determinante. La funzione-testimonial, come ricordavo sopra, non parla a tutti, ma a una comunità ristretta e precisa. Ciò che conta, dunque, è che il video si diffonda all'interno di questa comunità, che può essere numericamente limitata. Se per qualche motivo si diffondesse al di fuori (perché ad esempio è curioso, divertente, ecc.), raccoglierebbe sicuramente molte più visite, ma non per questo favorirebbe la comunicazione di marca  e di prodotto presso il pubblico di riferimento.

Il potenziale narrativo di American Express

Il registro linguistico e le scelte delle parole sono fondamentali per costruire il mito di marca o di prodotto (v. il post precedente). Ci sono scelte particolarmente coraggiose, che possono suscitare qualche perplessità, ma meritano comunque rispetto. Piccole o grandi che siano, impongono alla comunicazione standard quegli scarti semantici che la arricchiscono e la migliorano. 




Con la campagna 2011/2012 "Esprimi il potenziale", American Express ha introdotto massicciamente nel codice narrativo della comunicazione la parola "potenziale". Non è stata la prima. Qualche anno fa Microsoft aveva già sdoganato il termine con una campagna secondo me straordinaria: "Your potential, our passion"




Francamente era difficile scommettere che una parola così fredda, con un registro linguistico alto e un valore semantico piuttosto tecnico, potesse diventare un segno di comunicazione caldo, accattivante, comprensibile. Non dico che "potenziale" sia una parola astrusa, ma sicuramente non è inclusa in quell'elenco di poche centinaia di vocaboli usati dall'italiano medio. E' vero che il target di riferimento in entrambi i casi è medio-alto e/o scolarizzato. Ma "potenziale" di suo rimane un termine freddo, analitico, poco adatto a rendere empatica la comunicazione.

Il merito di American Express e di Microsoft è di aver saputo trasformare "potenziale" in una figura carica di attesa, aspettative, emozione. L'hanno spogliato del suo significato prevalentemente tecnico, del suo registro alto, e hanno rivelato - mi si passi il gioco di parole -  le sue potenzialità narrative. 

Sono questi segni che contribuiscono a far crescere l'aura mitica di una marca. Come piccole divinità creatrici, danno nuovi significati alla nostra quotidianità, sembrano inaugurare nuovi mondi e nuove possibilità. Finché il loro "potenziale" finirà per perdere la carica poetica. E diventerà linguaggio comune. 


Techetecheté marketing

Fino all'anno scorso era Dadaumpa. Quest'estate è diventato Techetecheté. E' il format dell'archivio Rai con spezzoni di vecchi programmi e personaggi della TV. Il bianco e nero, le immagini talvolta poco nitide, i corpi e le voci così diversi dagli standard di oggi. Sembra che piaccia molto ai giovani e ai giovanissimi. Il motivo è semplice. E' il fascino delle origini. E' la forza del mito.

Il mito è, per così dire, una storia che viene vissuta. E' empatia, emozioni, curiosità. Consolida legami e fedeltà (in questo caso, l'attesa delle nove meno un quarto per vedere la nuova puntata del programma). L'esempio di Techetecheté può essere utile per vedere come il processo di costruzione del mito possa essere applicato con efficacia alla comunicazione di marca e, perché no?, di prodotto.

Ecco alcuni punti da tenere presente per "mitizzare" il brand.

1. Creare un'aura mitica. Raccontare la marca o il prodotto come fossero un mondo che dà significato a esigenze, bisogni, esperienze.
2. Creare un nuovo linguaggio con contaminazioni e stilizzazioni precise, che parla a e di quelle esperienze.
2. No alla storia monumentale, si alle piccole storie.
3. Dare voce ai testimoni.
4. Disseminare segni di riconoscimento.
5. Coinvolgere il pubblico.
6. Trasformare i clienti in narratori.